Mobbing è un termine coniato negli anni settanta dall'etologo Konrad Lorenz per definire il comportamento di alcune specie animali che circondano in gruppo un loro simile allo scopo di allontanarlo dal branco, deriva dal latino mobile vulgus ovvero "plebaglia ", "gente disordinata che provoca sommosse".
Nel diritto del lavoro "mobbing" è l'insieme dei comportamenti prolungati nel tempo del datore di lavoro o del superiore gerarchico nei confronti del sottoposto con i quali, ponendo in atto vessazioni sul lavoratore, adibendolo a mansioni inferiori alla professionalità acquisita, favorendo maldicenze, utilizzando critiche infondate ed abusi psicologici, lo si induce ad abbandonare il posto, evitando di licenziarlo, o lo si punisce per un comportamento non gradito. In tal modo si provocano danni alla salute, psicofisici, talvolta alla capacità lavorativa con eventuali influenze negative sulla vita di relazione del lavoratore.
Questi danni sono passibili di risarcimento pecuniario a carico del datore di lavoro responsabile direttamente o tramite suoi dipendenti ex art. 2049 Codice civile "responsabilità dei padroni e dei committenti". I giudici del lavoro fanno per lo più riferimento all'art. 2087 del Codice civile che tutela le condizioni di lavoro statuendo "l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa lemisure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro."
La Cassazione ha ribadito, sezioni unite n. 26972 del 24 giugno-11 novembre 2008, che la violazione del datore di lavoro degli obblighi dell'art. 2087 citato dà luogo al risarcimento dei danni per la lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore, tutelata dall'art. 32 Costituzione, o della dignità personale del lavoratore, art. 2, 4 e 32 Cost., nel caso del pregiudizio alla professionalità da dequalificazione.
Segnalo ai lettori la recentissima decisione della Cassazione, da cui trae spunto questo commento, la n. 28887 del 9 dicembre 2008, con la quale si è precisato che il risarcimento del danno per la lesione della professionalità e dell'immagine accordato al lavoratore che ha subito un demansionamento non è tassabile. La Corte ha ribadito che in tema di imposte sui redditi le somme percepite a titolo risarcitorio dal contribuente costituiscono redditi imponibili solo quando reintegrano un danno costituito dalla mancata percezione dei redditi, come stabilito dall'art. 6, comma 2 del D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917.
Le somme ricevute quale risarcimento dal lavoratore a seguito di un ricorso di lavoro che si è concluso con sentenza di condanna del datore di lavoro, responsabile di atti di mobbing, non costituiscono reddito imponibile e non rientrano nel reddito tassabile.
Da operatore del diritto del lavoro, devo consigliare coloro che sono costretti a subire durante l'attività lavorativa comportamenti reiterati riconducibili a "mobbing" di non attendere che tali soprusi, ripetuti in quanto tollerati dal lavoratore, che teme di perdere il posto, si ripercuotano sulla propria sfera personale e familiare, come talvolta accaduto provocando gravi conseguenze, ma agire senza ritardo chiedendone l'immediata cessazione con una diffida formale mediante raccomandata a.r. indirizzata al datore di lavoro, elencando le vessazioni subite precisandone la provenienza, dal datore di lavoro o dal superiore gerarchico, riservandosi in difetto ogni più opportuna azione in sede civile o penale secondo la tutela accordata dalla vigente normativa.
Nel diritto del lavoro "mobbing" è l'insieme dei comportamenti prolungati nel tempo del datore di lavoro o del superiore gerarchico nei confronti del sottoposto con i quali, ponendo in atto vessazioni sul lavoratore, adibendolo a mansioni inferiori alla professionalità acquisita, favorendo maldicenze, utilizzando critiche infondate ed abusi psicologici, lo si induce ad abbandonare il posto, evitando di licenziarlo, o lo si punisce per un comportamento non gradito. In tal modo si provocano danni alla salute, psicofisici, talvolta alla capacità lavorativa con eventuali influenze negative sulla vita di relazione del lavoratore.
Questi danni sono passibili di risarcimento pecuniario a carico del datore di lavoro responsabile direttamente o tramite suoi dipendenti ex art. 2049 Codice civile "responsabilità dei padroni e dei committenti". I giudici del lavoro fanno per lo più riferimento all'art. 2087 del Codice civile che tutela le condizioni di lavoro statuendo "l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa lemisure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro."
La Cassazione ha ribadito, sezioni unite n. 26972 del 24 giugno-11 novembre 2008, che la violazione del datore di lavoro degli obblighi dell'art. 2087 citato dà luogo al risarcimento dei danni per la lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore, tutelata dall'art. 32 Costituzione, o della dignità personale del lavoratore, art. 2, 4 e 32 Cost., nel caso del pregiudizio alla professionalità da dequalificazione.
Segnalo ai lettori la recentissima decisione della Cassazione, da cui trae spunto questo commento, la n. 28887 del 9 dicembre 2008, con la quale si è precisato che il risarcimento del danno per la lesione della professionalità e dell'immagine accordato al lavoratore che ha subito un demansionamento non è tassabile. La Corte ha ribadito che in tema di imposte sui redditi le somme percepite a titolo risarcitorio dal contribuente costituiscono redditi imponibili solo quando reintegrano un danno costituito dalla mancata percezione dei redditi, come stabilito dall'art. 6, comma 2 del D.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917.
Le somme ricevute quale risarcimento dal lavoratore a seguito di un ricorso di lavoro che si è concluso con sentenza di condanna del datore di lavoro, responsabile di atti di mobbing, non costituiscono reddito imponibile e non rientrano nel reddito tassabile.
Da operatore del diritto del lavoro, devo consigliare coloro che sono costretti a subire durante l'attività lavorativa comportamenti reiterati riconducibili a "mobbing" di non attendere che tali soprusi, ripetuti in quanto tollerati dal lavoratore, che teme di perdere il posto, si ripercuotano sulla propria sfera personale e familiare, come talvolta accaduto provocando gravi conseguenze, ma agire senza ritardo chiedendone l'immediata cessazione con una diffida formale mediante raccomandata a.r. indirizzata al datore di lavoro, elencando le vessazioni subite precisandone la provenienza, dal datore di lavoro o dal superiore gerarchico, riservandosi in difetto ogni più opportuna azione in sede civile o penale secondo la tutela accordata dalla vigente normativa.
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